
“Come parla! Come parlaaaaa!! Le parole sono importanti!!!” recitava Nanni Moretti in Palombella Rossa, mentre prendeva a ceffoni la giornalista che lo stava intervistando. Seguendo il suo consiglio cerchiamo di fare chiarezza tra i termini “Decostruzione”, “Decostruzionismo” e “Decostruttivismo”, che pur avendo la radice in comune hanno significati diversi. Derrida il filosofo fondatore della “Decostruzione
” non parla mai di “Decostruzionismo”, che sebrerebbe termine dato da alcuni critici letterari alla pratica decostruttiva introdotta dal filosofo e che così tanta fortuna ha avuto negli anni ’80 e ’90. Mentre “Decostruttivismo” riguarda la pratica architettonica. Andiamo per gradi, in filosofia alla fine degli anni ’70 e primi anni ’80 era molto in voga lo Strutturalismo, sembrava si fosse trovata la “chiave segreta del mondo”, gli intellettuali fanno “deboli sorrisi solo se si parla di strutturalismo” cantava Guccini nella canzone Via Paolo Fabbri 43. E un pò c’era questa tendenza, anche Derrida ha radici nello Strutturalismo, la logica era la stessa. Lo strutturalismo si prefiggeva di scomporre, dividere, desedimentare, la struttura fino a raggiungere le particelle elementari, stiamo parlando di un testo di un’opera filosofica, di un romanzo o di una fiaba. Ma Derrida con la decostruzione va oltre dice infatti: “decostruzione sembrava andare in quel senso (dello strutturalismo), perchè indicava una certa attenzione alle strutture…. Decostruzione era anche un atteggiamento strutturalista…ma era anche un atteggiamento antistrutturalista. Bisognava scomporre , disfare, desedimentare le strutture”. La Decostruzione non è neppure pratica interpretativa (ermeneutica) fine a se stessa. Mentre l’ermeneutica cerca di capire il testo, anche al di fuori del contesto, cercandone un senso, la Decostruzione è pura pratica di scritture su scritture. Un gioco di rimandi che lambiscono le verità, nella consapevolezza che non esiste una verità ma che tutto è “danza” ballo. Nel libro di Derrida “Sproni” pubblicato per Adelphi, il filosofo si diverte a scrivere un’intero libro sulla frase di Nietzsche trovata tra i suoi appunti: “Ho dimenticato il mio ombrello”. Intepretando ma soprattutto decostruendo la frase per aprire nuove possibilità di lettura che a sua volta un altro critico o filosofo interpreterà e decostruirà le parole di Derrida sulla frase di Nietzche. Così si perde il senso, si perde l’origine, tutto si disgrega e diventa discorso. Vi è qui un fortissimo attacco alla Metafisica tradizionale, che prima Nietzche, poi Heiddeger avevano tentato di mettere in atto con il loro pensiero. Viene a crearsi una filosofia come “processo”, tutto si disfa, c’è spazio solo per le differenze. Una pratica cui Derrida si spinge oltre i limiti della sua disciplina, il decostruire deve avere valenza trasversale. Provocatoriamente dice:”Credo sia importante questa apertura dei confini e soprattutto dei confini accademici fra testi e discipline; e quando dico confini accademici non penso soltanto alle discipline umanistiche e alla filosofia, ma anche all’architettura. Questo incrociarsi, questo andare attraverso i confini disciplinari è una delle principali non solo strategie, ma necessità della decostruzione. L’aggancio di un’arte all’altra, la contaminazione dei codici, la disseminazione dei contesti sono qualche volta metodi o strategie di decostruzione.” Se per la filosofia la base della struttura filosofica della Metafisica è il principio di non contraddizione, per l’architettura la base è l’abitare, inteso nella parola greca oikos che potrebbe essere tradotto in focolare, casa ma anche tutti gli oggetti all’interno di una famiglia. E dal focolare prendono senso gli altri luoghi del vivere, il tempio, la piazza, lo stadio, la tomba. La legge del focolare è l’architrave che regge i luoghi della vita il loro fondamento. Così come in filosofia la decostruzione nega e assume nuove regole contro la Metafisica, il architettura si sovvertono le regole dell’abitare dell’oikos, struttura portante della disciplina. Ma andiamo per ordine. Fu una mostra inaugurata al MOMA di New York a dar avvio all’avventura decostruttivista in architettura. Nel 1988 l’architetto ormai ottantenne Philiph Johnson fu il curatore della mostra “Deconstructivism architecture”, invitando ad esporre quei progettisti che all’epoca erano pochissimo conosciuti, ma che ora sono il top delle star dell’architettura contemporanea vediamo chi erano: Peter Eisenmann e Gordon Matta-Clark americani, il canadese Frank Gehry, lo svizzero Bernard Tschumi, il polacco Daniel Libeskind, gli austriaci Coop Himmelblau, l’olandese Rem Koolhass, e l’irakena Zaha Hadid.

Frank Owen Gehry, Guggenheim di Bilbao,
1997

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Bernard Tschumi, Parkde la Villette,1982-1999

Daniel Libeskind, Memorial 9/11, Padova

Zaha Hadid, hey dar aliyev cultural center Azerbaijan
Da quel momento fu un crescendo di fama e lavoro per questi architetti che così provocatoriamente sovvertivano le regole del costruire. Aiutati dalle nuove tecnologie sia in fase di progettazione con il digitale, che in fase costruttiva con i nuovi materiali duttili e resistenti, questi architetti generano forti discresie. Prospettive audaci, tagli inaspettati, punti di vista nuovi, linee spezzate, volumi spostati sono il sale per le loro opere. Generano grande fascino in chi li guarda, indubbiamente, anche se talvolta sembrano “edifici fumetto”, come argutamente ha osservato mia moglie. Frank Gehry ad esempio è un architetto, forse il più conosciuto e il più pagato attualmente, che ha un’origine umile, non scrive di teorie come invece fanno i suoi colleghi decostruzionisti. Le sue opere possiamo dire siano delle sculture, delle opere d’arte, spesso gli artisti contemporanei che devono esporre in un museo progettato da lui si rifiutano, perchè si guarda all’architettura e non l’opera dell’artista esposto. Gehry spesso accosta anche materiali diversi e difficili da conciliare, soprattutto nei suoi primi lavori. Sovverte le regole della statica, le leggi della gravità, ma attenzione è solo apparenza, le strutture statiche ci sono e sono molto ben calcolate, è che vengono nascoste, camuffate, non c’è più corrispondenza tra forma e funzione, cardine dell’architettura classica e del movimento moderno. Possiamo dire che i veri eroi di queste architture siano gli ingegneri strutturisti, molto attenti a seguire i “capricci” volumetrici di queste archistar. Molti edifici di Gehry propongono la metafora del ballo, “Come si può distinguere un danzatore dalla danza” citando W.B. Yeats; come nell’edificio d’angolo progettato per Praga, soprannominato appunto Ginger and Fred la cui forma ricorda i due ballerini abbracciati in un passo di danza. Un altro architetto molto famoso e conosciuto che ha lavorato anche in Italia è Zaha Hadid, irakena d’origine, ha lavorato presso lo studio OMA di Rem Koolhas, per poi proseguire da sola la sua carriera. Le sue architetture inplicano il dinamismo, spesso i critici l’hanno accostata ai costruttivisti e suprematisti russi. Due movimenti d’avanguardia dei primi del ‘900 che si prefiggevano di stabilire l’assoluta autonomia dell’arte. Si negava l’oggetto della rappresentazione e si disegnavano forme pure: il quadrato, il rettangolo, la linea. Emblematica è l’opera di Kazimir Malevic “quadrato nero su sfondo bianco”, con un gesto molto rivoluzionario veniva esposto un semplice quadrato per affermare la libertà dell’arte da qualsiasi coinvolgimento con la natura o con la società. Si può dire che la Hadid nei suoi progetti abbia certamente in mente il costruttivismo e il suprematismo russo delle avaguardie, ma con il suo gesto fa poco per rinnovare il panorama artistico contemporaneo, applicando all’architettura costruita concetti già espressi in arte circa 70 anni prima. Mi sia permessa ora una critica al loro lavoro, per certi aspetti così difficile e affascinante, i due architetti così come altri loro colleghi contemporanei, hanno poco rispetto sia per la storia che per il contesto. Il contesto, l’intorno: “Fuck the context!!!”mi verrebbe ma far loro dire. La forte traccia del progettista “impone” il suo disegno sull’ambiente, questo può piacere e non piacere. Ora la città di Bilbao viene associata al museo Guggenheim di Gehry è diventato il simbolo della città, tralasciando la storia. Sempre per rimanere nella metafora del ballo concludo questo mio Blog con una citazione da G. Steiner in Vere Presenze: “La decostruzione danza davanti all’antica Arca. È una danza giocosa, come lo è infatti il ballo dei Satiri e, allo stesso tempo tra i suoi praticanti più acuti, intriso di tristezza. Perchè i danzatori sanno che l’Arca è vuota”.
Bibliografia.
Opere di Derrida
J. Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, 2002
J. Derrida, La farmacia di Platone, Jaca Book, 2007
J. Derrida, Luoghi dell’indicibile, Rubettino, 2012
J. Derrida, Sproni, gli stili di Nietzsce, Adelphi, 1991
Sulla Decostruzione:
Roberto Diodato, DECOSTRUZIONISMO, Editrice Bibliografica, 1996
M. Ferraris, Introduzione a Derrida, Laterza, 2003
George Steiner, Vere presenze, contro la cultura del commento, una difesa del significato dell’arte e della creazione poetica, Ed. Garzanti, 1992.
Sul Costruttivismo e Suprematismo:
M. Bonelli, Astrattismo e Costruttivismo, F.lli Fabbri editore, 1977.
Articoli
Norris, Intervista con Jacques Derrida, in «Architecture Design», n. 1/2, 1989, p. 9.
Per una introduzione alle architetture Decostruttiviste consiglio la facile collana: Universale di architettura, edizioni Dedalo, Bari. Facilmente reperibili in qualsiasi biblioteca.